La “Torino noir” vista e narrata da Milo Julini

Anziano padre di famiglia massacrato da tre giovani teppisti nel borgo San Donato

Riprendiamo, dopo un periodo di interruzione, la nostra ricognizione negli spazi fisici e metafisici della criminalità giovanile della Torino ottocentesca.

di Milo Julini e Luca Colli

Raccontiamo una storia di inaudita violenza giovanile, ambientata nella Torino del 1870.

Alla base di tutto vi è un litigio, scoppiato durante una partita a bocce che si svolge non sappiamo né dove né quando, perché il cronista giudiziario, che ci ha tramandato la vicenda sulla “Gazzetta Piemontese” del sabato 24 febbraio 1872, non si è dilungato sulla genesi del crimine.

Si è limitato ad accennare ai motivi che provocheranno violente manifestazioni di odio: in quella fatale partita, una boccia lanciata dal giovane Battista Brunato in direzione del pallino, venne deviata da Francesco Gastaldi, un ragazzo non ancor ventenne.

Da quella boccia dipendeva il destino della partita, tant’è che, probabilmente, l’intervento di Gastaldi non era da considerarsi un incidente. Questo provocò l’ira di Brunato, che si arrabbiò e insultò Gastaldi. Questi non rimase zitto, aiutato dalla presenza dei suoi amici che gli rimanevano vicino, rispose agli insulti di Gastaldi.

Tra gli amici di Brunato, c’era Giovanni Audagnotti, il quale si sentì offeso dalle parole di Brunato, e rispose con una minaccia: “Me la pagherai!”. Queste parole erano molto importanti e pericolose, perché Audagnotti era solito ubriacarsi e girare armato.

Qualche giorno dopo l’accaduto, nella compagnia di Brunato, si discuteva di quanto fosse successo. Molto duro fu il fratello di Battista Brunato, che s’infuriò con Gastaldi e Audagnotti. Questi sentì, e gli sferrò una coltellata sul fondo schiena. Non era una ferita grave, era un semplice avvertimento. Infatti, la ferita guarì, e nessuno avvertì le forze dell’ordine.

Audagnotti, però, voleva vendicarsi di Brunato, voleva ferire qualche componente della sua famiglia, voleva appagare la propria sete di sangue.

Chiaramente, l’occasione arrivò.

Nella domenica 1° maggio 1870 il tempo era invitante, molti torinesi si concessero una merenda fuori porta sui prati.

L’anziano Brunato Giovanni amava passare i pomeriggi sui prati di Lucento, dove aveva vissuto nella sua infanzia. Invitò quindi la moglie, Maria Magnetti, e il figlio Battista ad accompagnarlo per uno spuntino a Lucento.

Nella Torino del 1870, Lucento era un borgo separato da Torino non soltanto dalla distanza ma anche fisicamente, dalla cinta daziaria che correva lungo gli attuali corsi Ferrucci, Tassoni, Svizzera e Mortara. Questo muraglione, alto e invalicabile, aveva una apertura alla barriera del Martinetto, posta dove oggi la via San Donato si apre sul corso Tassoni.

Dalla barriera del Martinetto non vi erano più aperture fino alla barriera di Lanzo, l’attuale piazza generale Baldissera (ex stazione Dora).

Per raggiungere Lucento si percorreva la via San Donato, si attraversava il borgo San Donato, che non si estendeva molto oltre la via Saccarelli, si raggiungeva il borgo del Martinetto, posto a ridosso della cinta daziaria, si usciva dalla barriera del Martinetto, si traversava la Dora sul ponte dell’attuale corso Svizzera e si prendeva la strada di Pianezza (via Pianezza) che correva tra i prati.

Questo era l’itinerario che la famiglia Brunato percorse per la sua gita domenicale che si può veramente definire “fuori porta”

I Brunato erano la classica famiglia modello, a vederli all’ombra di una grande quercia, mentre si facevano carinerie a vicenda, nessuno avrebbe provato odio per loro.

Dopo qualche ora, il sole si nascose dietro le montagne, e l’ombra si diffuse sul prato.

“Bisogna che ci avviamo verso casa”, disse il vecchio,

“Sì, sono d’accordo”, rispose la moglie.

I tre riposero le vettovaglie e s’incamminarono verso il borgo San Donato.

Quando arrivarono alla chiesa, la loro strada venne interrotta da Gastaldi, armato di coltello.

“Cosa vuoi?!” gli chiese subito il vecchio.

“Lo vedrete subito” rispose il ragazzo.

“Vattene!”, gli ordinò l’anziano, e con il braccio libero lo spinse a terra.

In pochi secondi spuntò Giovanni Audagnotti, seguito da altri amici, Carlo Brunero e Giovanni Martina, tutti armati di coltelli.

“Fuggiamo!!!” urlò il figlio Battista. I tre si divisero: la madre entrò in una porticina, il padre corse lungo la via Balbis e Battista continuò velocemente sulla via centrale del borgo. Gastaldi si gettò al suo inseguimento, mentre gli altri tre rincorsero il vecchio. Lo raggiunsero al termine di via Balbis e gli sferrarono violenti colpi con i coltelli.

Colpito e sofferente, il vecchio esclamò: “Pietà, vi prego. Cosa vi ho fatto?”.

Tremenda fu la loro risposta: “Sei un Brunato, questo basta!”.

Diversi colpi vennero sferrati con crudeltà, il coltello di Giovanni Martina penetrò troppo nel cranio del vecchio e vi rimase conficcato. Seguirono ancora calci e pugni, finché i coniugi Franceschini, affacciandosi dal balcone della loro casa, con le loro grida fecero allontanare gli aggressori.

Seppur ferito e sofferente, il vecchio Brunato si rialzò, impegnando tutte le sue forze.

Audagnotti, vedendolo ancora in piedi, tornò su i suoi passi e gli sferrò l’ultimo colpo.

Il vecchio, trapassato nel ventre, cadde a terra, definitivamente.

Il figlio Battista riuscì a sfuggire agli inseguitori e ritornò nel borgo in cerca dei genitori.

Rapidamente trovò la madre, e insieme andarono alla ricerca del padre. Dopo poco, lo trovarono.

La donna si gettò straziata sul corpo esanime e martoriato del marito. Vennero chiamati i soccorsi e i carabinieri. Il corpo del vecchio venne portato all’ospedale, dove morì poco dopo.

Bisognava trovare gli assassini.

Giovanni Martina venne visto dirigersi verso casa sua, con gli abiti sporchi di sangue. Tra le mura domestiche ebbe un violento scontro con il padre, tirò fuori il coltello e disse: “Oggi ho già ucciso, zitto, o uccido anche te!”.

Il padre voleva rispondere ma, vista la brutalità del figlio, tacque e si ritirò.

Il giorno dopo l’accaduto, Martina fu arrestato, ancora con l’arma del delitto e i vestiti insanguinati. La mano destra gli si gonfiò e dovettero amputargliela. Comparve davanti alla Corte d’Assise col braccio monco.

Brunero e Gastaldi furono arrestati il 3 maggio.

Il primo fu sorpreso, anche lui, con gli abiti sporchi di sangue. Gastaldi, mentre si trovava in cella, fu preso da una fortissima febbre che ne provocò la morte.

Audagnotti vagava fuggiasco, mentre la polizia lo cercava. Dopo giorni di fuga, stanco di nascondersi, si consegnò volontariamente alle autorità.

Nel febbraio 1872, Martina, Brunero e Audagnotti comparvero davanti alla Corte d’Assise, presieduta dal barone Nasi.

A questo punto il cronista giudiziario dimostra tutta la sua riprovazione per il la linea di difesa tenuta in aula dai tre teppisti che non esitarono ad accusarsi a vicenda, dimenticando l’antica amicizia, e avanzarono ragionamenti strampalati e scuse improbabili per sminuire la loro responsabilità.

Il cronista annotò impietoso quelle che definiva “Curiose risposte degli accusati”.

Martina si discolpò dicendo: “Io sono amico di Audagnotti, lo seguii per aiutarlo nella rissa, ma quando vidi che stava ferendo il vecchio Brunato, feci di tutto per allontanarlo”. Sosteneva poi che il suo coltello e i suoi vestiti erano sporchi del sangue di suo padre, che aveva minacciato quella sera.

Brunero si dichiarò innocente, spiegò che aveva i vestiti macchiati sangue perché, assistendo ad un processo in tribunale, per l’emozione aveva avuto una emorragia nasale e il fazzoletto intriso del suo sangue aveva macchiato la tasca.

Audagnotti sostenne: “Io ho dato solo la pugnalata nel ventre, che è stata giudicata non mortale. Devo essere solo accusato di lesione”. Non odiava i Brunato al punto di volerli vedere morti: “Volevo solo ferirli”.

Tra i testimoni, i coniugi Franceschini, che avevano assistito a tutta la scena, la descrissero accuratamente, accusando i tre giovani.

Gli avvocati Benevolo, Ambrogio, Roggeri e Galateo, che avevano una cattivissima causa per le mani da difendere, cercarono in tutti i modi di ridurre le colpe dei loro assistiti.

I giurati non si lasciarono convincere: il loro verdetto comportava la condanna dei tre accusati ai lavori forzati a vita. Ma due erano ancora minori dei ventuno anni e si videro abbassare la pena a vent’anni. Il solo Brunero fu condannato a vita.

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Articolo pubblicato il 09/01/2014