Il Piemonte ha il fiato sempre più corto. E’ così?

Nostra intervista a Claudia Porchietto, consigliere regionale.

L’economia italiana, secondo la nota mensile dell’Istat, accelera sostenuta da una crescita diffusa tra i settori produttivi e dall’aumento dell’occupazione. La situazione del Piemonte non marcia in tal senso. Sono aperte 70  crisi aziendali e il lavoro e l’occupazione non decollano.

 

-Dottoressa Porchietto, lei e altri consiglieri regionali del centro destra, avete seguito da vicino le Vertenza Comital, Savio, Embraco, Seat  tanto per citare quelle che purtroppo non stanno trovando soluzioni. Cos’è mancato a suo parere nel tentativo d’interessamento della Regione?

L’approccio. Con l’arrivo del centrosinistra siamo tornati all’idea di un assessorato al Lavoro che si limita ad essere erogatore di sussidi e funge da camera mortuaria per le aziende in difficoltà. Quando rivestivo l’incarico di assessore avevo fatto cambiare approccio a tutta la struttura, pensando che per ogni crisi ci potesse essere una via d’uscita.

 Certamente a  volte abbiamo vinto, altre volte abbiamo perso: è certo però che ci abbiamo provato con tutte le nostre forze, senza mai arrenderci all’idea che le crisi si traducano puntualmente in licenziamenti di massa e nella perdita di aziende e marchi strategici per il nostro territorio.

 - Tra le notizie, che con un grado elevato dì attendibilità stanno circolando, risulta l’interesse di gruppi d’investitori cinesi per le produzioni industriali che storicamente sono presenti in Piemonte

Se nei prossimi anni si accentuasse l’intervento di capitali esteri nei confronti di produzioni presenti sul nostro territorio, le problematiche più volte denunciate sui rapporti tra le produzioni industriali ed il ruolo degli enti territoriali, tornerebbe drammaticamente d’attualità. Quali ragioni determinanti potrebbero indurre gli investitori a restare in Piemonte?

Il problema non sono i capitali esteri in entrata, magari sempre più imprenditori fossero attratti dal Piemonte per investire e produrre nel nostro Paese. La questione è che, scoraggiati dall’incertezza delle regole e da una tassazione insostenibile, spesso chi arriva nel nostro Paese si limita a lanciare operazioni di depredazione di brevetti e marchi, altro che fare impresa. E’ necessario un ripensamento globale delle politiche industriali e fiscali in Italia e in Piemonte, altrimenti continueremo ad essere terra di conquista.

Un cambio di vision dovrebbe avvenire anche in Europa dove si legittimano ancora azioni aggressive tra i vari stati, invece di sostenere i settori più produttivi di ogni Paese contro la concorrenza sleale delle Economie emergenti o dei nostri diretti competitor internazionali.

-Nel suo precedente ruolo di assessore, lei ha tenuto costanti rapporti con le organizzazioni e realtà produttive del Piemonte e mediato parecchie vertenze sindacali. E’ perfettamente a conoscenza che Lombardia, Rhone Alpes, Savoia, Vallese, Carinzia e Baden-Württemberg, sono già da tempo mobilitate con politiche idonee per incoraggiare e incentivare nuovi investimenti produttivi. La leva ormai consolidate si basa su diverse iniziative, in primis le facilitazioni burocratiche che da noi continuano a rappresentare un ostacolo insormontabile.

Quali misure adotterebbe per evitare la delocalizzazione e per tutelare e incrementare lavoro e occupazione?

Semplicemente attraverso l’introduzione di zone franche e aree a burocrazia zero nel Canavese, Eporediese e in Val di Susa. Solo in questo modo sarebbe possibile limitare gli effetti di una tassazione fuori controllo, anche se queste sono misure a tempo che necessitano poi un ripensamento globale della tassazione, della burocrazia e della giustizia. Queste sono le tre componenti che oggi costituiscono un discrimine per investire in Italia e in Piemonte.  

-Dinanzi a crisi aziendali senza possibilità di ripresa, si ricorre alla cassa integrazione o s’invoca il salario di cittadinanza per i disoccupati, senza cercare di agevolare la ricerca del lavoro vincolante.

Qualè il suo giudizio sulle attuali procedure di avviamento al lavoro e sugli strumenti per agevolare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro?

Semplicemente il centrosinistra preferisce la politica assistenziale alle politiche attive per il lavoro. Questo modello è fallimentare visto che bisogna fare i conti con risorse ridotte all’osso. Prima era uno spreco, oggi è un lusso che non possiamo sostenere.   

 -Cresce la disoccupazione giovanile e, nel contempo gli industriali si lamentano che non riescono a reperire candidati in possesso di formazione adeguata.

Qual’è il suo parere sul grado di attendibilità e sui contenuti intrinsechi e qualitativi della formazione professionale finanziata dagli Enti pubblici?

Uno dei primi provvedimenti varato dalla Giunta di centrosinistra è stato quello di non finanziare l’aggiornamento del programma da noi commissionato e realizzato dalla Bicocca di Milano il quale serviva per orientare la predisposizione di corsi di formazione in base alla domanda del mercato e non alle esigenze delle agenzie. È evidente che presentare corsi fotocopia, anno dopo anno, non aiuta la piena occupabilità o la riconversione delle professionalità: al centrosinistra piace questo modello, a me no perché non assicura dignità ai lavoratori. 

-Il Piemonte che è stato una delle regioni ove produzione e ricerca primeggiavano in Europa, a suo parere. potrà uscire dal ristagno  che ormai dura da parecchi anni?

Il Piemonte ha tutte le caratteristiche per uscire dalla crisi ma se cambia la supponenza della sua classe politica. Su questo punto il Rapporto Rota ha il merito di aver aperto gli occhi a molti. La nostra regione dovrà poi perdere il suo aplomb sabaudo iniziando finalmente ad incidere a livello romano anche come lobby territoriale.

- In Chiamparino e nella sua Giunta c’è una cultura d’impresa aggiornata ai tempi?

Sicuramente, la cultura dell’impresa assistenziale e sindacale.

 - La sua ricetta?

 Portare la cultura del privato nel pubblico.

Grazie dottoressa Porchietto

 

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Articolo pubblicato il 15/11/2017