Per un anno VERAMENTE NUOVO

«AUGURI, AUGURI!» Per un anno prospero, fortunato, pieno di salute, denaro e felicità per noi e per le persone a noi care?

Quanti auguri di buon anno abbiamo fatto e ricevuto, negli ultimi giorni? Ciascuno di noi da un valore diverso a questi auguri, anche a seconda di chi ce li sta facendo o a chi li stiamo porgendo, ma ci siamo già soffermati a chiederci “cosa ci stiamo augurando veramente? Un anno prospero, fortunato, pieno di salute, denaro e felicità per noi e per le persone a noi care?”.

Ai suoi tempi, circa duemilacinquecento anni fa, il saggio Eraclito diceva: «Non sarebbe certo meglio se agli uomini accadesse proprio quello che si augurano». Nella Grecia di allora Eraclito passava per essere un filosofo oscuro, difficile da comprendere, potremmo dire “ermetico”. Cosa intendeva dire con il suo aforisma, così spiazzante, perlomeno in apparenza?

 

Quando noi ci auguriamo qualcosa, cosa stiamo facendo in realtà? Semplificando, potremmo dire che in genere proiettiamo nel futuro il nostro desiderio di vivere nuovamente le situazioni che in passato ci hanno fatto stare bene e di evitare tutte le situazioni che ci hanno fatto soffrire.

In effetti, è una tendenza umana naturale avere un certo timore rispetto all’ignoto, per cui è altrettanto naturale che le nostre aspirazioni vadano in genere verso situazioni a noi già note, che non ci inquietano e ancor meno ci spaventano. Resta il fatto che, così facendo, finiamo per augurarci, per quanto riguarda il futuro, qualcosa che è legato profondamente – nel bene o nel male – al nostro passato.

 

Perché? Perché non possiamo immaginare qualcosa che non faccia parte della nostra esperienza vissuta, forse vissuta da una parte di noi in un’altra incarnazione, ma comunque vissuta, passata. Ci mancherebbero gli elementi su cui costruire mentalmente la situazione che ci auguriamo!

Continuando nel nostro approfondimento, possiamo dire che noi tutti siamo oggi innegabilmente, tanto sul piano della coscienza che su quello della vita, il prodotto di tutte le esperienze del nostro passato … e in generale nessuno di noi può dirsi veramente felice, vero? E allora non è perlomeno curioso che siamo così ansiosi di augurarci un futuro modellato proprio sul nostro passato? Per questo, come dice Eraclito, non sarebbe certo meglio se agli uomini accadesse proprio quello che si augurano.

 

Ogni essere umano che cerca di vivere “da sveglio” intuisce che la vita gli è stata data con un fine. Qualcuno ha iniziato a farsene un’idea concreta, qualcun’altro ne ha sentito … come dire … il profumo, qualcuno brancola ancora nella nebbia, ma tutti sanno nel profondo di loro stessi che un fine c’è. E sanno anche sufficientemente bene che questo fine non può essere solo quello di “nascere-esistere-morire”, anche se purtroppo un gran numero di altri esseri umani cerca e trova in questo succedersi un po’ meccanico delle cose la propria realtà esistenziale.

 

Ma dove si trova questo fine? In senso temporale non si trova certamente nel passato, nel nostro passato, altrimenti l’avremmo già trovato. Ma non può essere nemmeno nel futuro, perlomeno nel “futuro che ci auguriamo di vivere”, poiché – come abbiamo visto – esso è fondamentalmente una proiezione del passato. Dunque, dove si può trovare?

 

Uno dei simboli più antichi della storia dell’umanità è la croce, di gran lunga antecedente all’utilizzo che ne ha fatto la religione cristiana, e uno dei molteplici significati che le sono stati attribuiti ha a che vedere con il Mistero del Tempo. La trave orizzontale simboleggerebbe il trascorrere del tempo, dal passato al futuro, il tempo lineare, il Cronos degli antichi Greci; la trave verticale invece rappresenterebbe la dimensione dell’Eternità, il tempo infinito, nel senso di non-finito; al centro, dove le due travi si incrociano, si trova il presente, il tempo Kairos, il “Carpe diem!”, il “qui e ora”.

 

«Non si ripete due volte questo giorno. Scheggia di tempo, grande gemma.
Mai più tornerà questo giorno. Ogni istante vale una gemma inestimabile.»

 

Queste parole pervase di soave fascino, pronunciate un tempo dal monaco zen Takuan, meriterebbero di essere vissute pienamente, vero? Come possiamo fare per avere accesso a quello stato d’essere che ci permette di sentirle echeggiare dentro di noi?

 

Alcuni anni fa Mimmo Tringale, direttore del mensile Terra Nuova, scriveva in un suo editoriale dei “falò di fine anno”, un’usanza assai antica (si dice che risalga ai Celti) che viene ancora celebrata in certe comunità rurali: si da fuoco a una grande catasta di legna, al centro della quale viene posto un fantoccio, che simboleggia il “vecchio” che si vuole bruciare per fare posto al “nuovo”.

 

Ora, se volessimo anche noi celebrare in questo modo il passaggio da un anno all’altro, ci verrebbe apparentemente abbastanza facile “abbigliare” il nostro personale fantoccio, in quanto basterebbe vestirlo con tutte le cose che non ci vanno a genio, che ci hanno fatto soffrire, che ci rendono difficile la vita, che ci disgustano, che ci spaventano … l’elenco sarebbe lungo, ovviamente, e diverso per ciascuno di noi, perlomeno nella forma esteriore.

 

Sarebbe meno facile, come osserva Tringale, «smascherare le nostre personali responsabilità, ovvero diventare consapevoli di come le nostre piccole scelte quotidiane rendano possibile proprio quelle situazioni che poi critichiamo». Questo aspetto delle cose è un po’ “meno diverso” per ciascuno di noi, poiché siamo tutti coinvolti in una certa misura in questo scarico di responsabilità, in questa “delega verso l’esteriore” di ciò che in realtà ci riguarda profondamente.

 

L’invito che egli rivolge ai suoi lettori è «di fermarsi un attimo e guardarsi dentro, di osservare con benevolenza ma determinazione quello che non va nella nostra vita», tenendo presente che «siamo troppo abituati a cercare i nemici fuori di noi, poiché i nemici dentro sono più subdoli, si nascondono nelle pieghe della coscienza, si muovono con passo felpato. Sono le resistenze e le paure che ci impediscono di trovare la nostra vera essenza e quanto di vero c’è negli altri. È quella speciale forma di miopia che ci fa confondere il dito con la luna, il mezzo con il fine, il treno ad alta velocità con il viaggio». E termina con lo stimolo «a bruciare, insieme all’anno vecchio, tutto ciò che di vecchio (nel senso di “non più utile”) ci portiamo dentro, con la consapevolezza che per lasciare andare definitivamente la zavorra bisogna rinunciare a una parte di noi stessi».

 

Se riusciremo a realizzare almeno in parte questo piccolo processo laico di purificazione, qualcosa in noi cambierà, certamente. E potremo andare incontro alla nostra vita con più leggerezza e meno aspettative, più curiosità e meno timori, più disponibilità e meno conflitti.

 

Buon NUOVO ANNO a tutti!

 

Emiliano Bonifetto

 

Immagine: iltuocoach.it

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Articolo pubblicato il 29/12/2018