Se Trump “tifa” l’impeachment. Di Vito de Luca.

Come ha ben scritto Ben Domenech su The Federalist, Trump altro non vuole che un’arena.

Siamo sicuri che il presidente Usa Trump tema una possibile messa in stato di accusa, da parte del Congresso americano, come richiesto dalla speaker, l’italo-americana di origini abruzzesi), Nancy Pelosi, riguardo ad una presunta telefonata dell’inquilino della Casa Bianca, a Zelensky, il presidente ucraino, esortandolo nel far aprire un’indagine sul figlio di Joe Biden, uno degli aspiranti sfidanti di “The Donald” alle elezioni presidenziali del prossimo anno?

 

Non che Trump abbia festeggiato mettendo in buca in uno dei suoi campi da golf, ma un “impeachment”, per l’autore di “L’Arte di fare affari”, potrebbe rappresentare  benzina nella corsa al rinnovo del mandato a Washington. Trump ha certamente intuito che  se i democratici lo metteranno sotto accusa, compiranno qualcosa di impopolare invece di qualcosa di popolare.

 

Forse i sondaggi che mostrano l’impopolarità dell’impeachment cambieranno mano a mano che la storia dell’Ucraina si sviluppi. Forse le audizioni pubbliche porteranno ad una serie di colpi che persuaderanno  il grande collegio anti-Trump nel mostrare come necessaria una cacciata di Trump per “tradimento”.  Ma è del tutto evidente che Trump, più di Pelosi, fomenti un impeachment anche con funzione di “What the dog”, di distoglimento dell’attenzione di un elettorato a stelle e strisce, il quale non disdegna una certa popolarità dei candidati dem.

 

Una richiesta di impeachment, invece, farebbe rinserrare le file dei trumpiani, rispostando l’attenzione verso colui che, dati alla mano, ha ridato una spinta determinante all’occupazione,  più di qualunque altro presidente negli ultimi decenni. E oggi, mettersi dalla parte sbagliata, ovvero dalla parte opposta di Trump, non è redditizio elettoralmente. Senza tralasciare, come ha ben scritto Ben Domenech su The Federalist, che Trump altro non vuole che un’arena. La voglia è quella del combattimento.

 

E ora, se l’agenda setting non sarà più quella dell’assicurazione sanitaria o dell’economia, ma quella che si dipana tra un  Trump “traditore” sì o “traditore” no, altro non può essere desiderabile dal presidente Usa, che agogna lo scontro e che nello scontro, di norma, annienta l’avversario. E poi, chi l’ha detto che a Trump dispiaccia mostrare un presunto, e tutto da dimostrare, abuso di potere, contro le élites che egli definisce «corrotte»?

 

Una campagna elettorale contro la «soft corruption of his foes», contro la morbida, leggera corruzione dei suoi nemici farebbe alzare i toni della sfida, a tutto vantaggio di Trump. La «pressione» di Trump sul presidente ucraino sarebbe stata, infatti, quella di far riaprire un’inchiesta per corruzione (ovviamente, anche questa presunta) sulla Burisma, un’azienda del gas nel cui board, fino a qualche mese fa, figurava Hunter Biden, figlio dell’ex presidente Usa ai tempi di Obama.

 

Inoltre, una messa in fuori gioco di Trump alle elezioni 2020, non metterebbe, diversamente da come accaduto con Nixon col Watergate, il presidente uscente in panchina nella squadra del partito Repubblicano, come molti dell’elefantino si auspicano. Un Trump eventualmente non rieletto alla Casa Bianca, con il suo carisma nel mondo e nel paese, anche attraverso i milioni di seguaci del web, sarebbe una spina nel fianco per il Grand Old Party, creando una spaccatura letale in un partito già dilaniato.

 

Argomentazioni ben note a politici navigati come Pelosi (e ai repubblicani), i quali, quasi certamente, prima di formalizzare qualsiasi accusa nei confronti di Trump, diversamente da come appaia adesso, daranno uno stop all’ipotesi di impeachment.

Loccidentale.it

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Articolo pubblicato il 26/09/2019