Giro di DO

Un racconto di Maria Rosa Arena

DO LAm REm SOL7! Dai! Più veloce e poi di nuovo. Coraggio!

 

Le grosse dita di Giannino s’impegnarono rapide sulle corde della sua Eko rosso fuoco. La grazia di cui era privo nel camminare e nel muoversi, si materializzava magicamente in quei gesti veloci delle dita tozze. Tanto da non sembrare neanche le sue.

 

Ciccione! Ciccione! Ecco Rotolo che rotola! - lo schernivano puntualmente i ragazzini appollaiati sul muretto del cortile di casa sua.

 

Nei momenti peggiori di buio totale - quando gli schizzavano le lacrime dagli occhi - finendogli sulle Nike, aveva immaginato per loro la morte peggiore: una bomba? Un Tir impazzito? Un terremoto? Una tempesta di fulmini? O più semplicemente un suicidio di massa come avveniva nelle sette. E dopo mille immagini di morte masticate assieme alle lacrime, piano piano si abituò: pareva non farci più caso. Questa scoperta lo riempì di orrore: abituarsi al dolore e allo scherno, era una scelta che non augurava a nessuno. Ma la fece ugualmente perché alla fine era l’unica che potesse fare.

 

Negli anni si strinse in quella corazza, nascondendosi sempre di più dietro l’ammasso di carne che camminando lo precedeva e abbozzò: lo usò come scudo.

 

DO LA RE...STENCK! Sbagliò. Guardò l’insegnante, un uomo gentile e paziente e sospirò:

«Scusi, mi sono distratto».

 

«Non importa Gianni. Stai andando benissimo. Ricorda che prima o poi l’orecchio prenderà il sopravvento – e se sei bravo davvero – potrai suonare qualsiasi cosa! Non avere fretta: il giro di Do è la porta verso l’infinito. Con quello andrai ovunque, vedrai!».

 

Giannino sorrise abbassando gli occhi verdi sul sorriso benevolo dell’uomo. Si riempì di ottimismo. Nella sedia accanto, Silvia si accaniva invece con le dita sul manico della sua chitarra imprecando: «Uffa, non ci riesco. Non sono veloce come lui» disse corrucciata. E Giannino si aspettò che aggiungesse: “sto ciccione di merda”. Non lo fece. La guardò mentre l’insegnante le faceva vedere dove sbagliava, guidandole le dita con le sue. Avrebbe voluto trasformarsi in una di quelle corde – un MI cantino, andava bene - solo per sentire il contatto delle sue dita arpeggiare su di lui. La spiò armeggiare lo strumento sbuffando, mettendosi una mano sugli occhi per poterla osservare: quanto era bella? Forse non era bella nel senso classico ma meravigliosa, si. Quante volte aveva studiato quelle fossette che si formavano quando sorrideva anche se non a lui. E i suoi occhi azzurri? Non erano forse cristalli di neve dissolti in un lago? E i capelli? Ah, quelli! Gli pareva di sentirne il profumo. Così neri, lucidi e lunghissimi tanto da avvolgersi come lacci intorno al suo cuore di diciottenne senza speranza.

 

Che poeta e che cuore, che ho?... Un cuore di ciccione – si ripeteva schernendosi.

 

Silvia, sentendosi osservata lo guardò girando le gote rosa verso di lui.

 

Ci vedeva il disprezzo e il disgusto o era una sua impressione?

 

«È inutile che te la tiri tu...» - balena! Mongolfiera! Botte di lardo! - aggiunse Gianni nella sua testa. E invece lei disse:

«...stupido!».

 

Mi è andata bene. Concluse lui. Le strinse gli occhi per comunicarle gratitudine ma il verde si perse oltre e lei non lo colse: non cambiò espressione. Lo fissò come si fissa un insetto molesto.

 

- Ora mi schiaccia con lo spartito! - pensò tirandosi leggermente indietro sulla sedia.

 

Silvia invece si scostò con un gesto alcuni capelli dal viso che le finivano fra le corde della chitarra e continuò nel suo esercizio, ignorandolo. Le sue dita fecero vibrare le corde ed emisero un suono ovattato privo di passione. Per quanto grande fosse il suo cuore, Gianni ne percepì tutta l’infinita desolazione. Nota dopo nota in realtà riuscì a sentire solo silenzio.

 

Finita la lezione, afferrò la sua Eko e la infilò nella custodia azzurra con la stessa dolcezza di un padre che infila il figlio in un letto. Salutò e andò via timidamente come al solito. Nell’uscire, seguì furtivo con lo sguardo Silvia che lo precedeva di qualche metro. Si muoveva come un elfo. Ne percepiva la leggerezza. La vide svanire sotto la luce gialla dei lampioni, magicamente come una creatura dei boschi.

 

E lui invece le aveva guardato il culo! Lo ammetteva - ma mioddio - possibile che le forme, alcune forme sinuose e ammiccanti, dovessero essere un peccato da guardare? Non le sue, certo... quelle non di sicuro.

 

Ripensò a sé stesso che sedeva sulla sedia senza averci appoggiato neanche metà gluteo. Alla fatica che faceva a stare dritto, senza sentire i rotoli della pancia che scorrevano, spingendo sotto la maglia. A tutte le volte che aveva pensato di scivolare da quella trappola, finendo a terra come un capidoglio arpionato facendo ridere tutti.

 

Quando arrivò a casa, storse il muso in una smorfia. Lo aspettava la cosa peggiore: lavarsi. I suoi 150 chili lo osservavano ogni sera, da dietro lo specchio e non solo. Com’era possibile che fosse diventato così? Eppure stava bene. Non aveva nulla. Certo mangiava a quattro palmenti e i medici gli avevano detto che doveva dimagrire, ma come? Lui, non sapeva farlo. Guardò la foto dei suoi genitori. - Perché la teneva in bagno? - Forse per ricordarsi chi era nei momenti più cruciali? Gli era grato: gli avevano lasciato la casa e una incredibile quantità di soldi. Certo prima o poi avrebbe trovato lavoro e non aveva comunque lasciato la scuola. Giannino era bravo. Uno studente e figlio modello! Senza contare che poteva vivere di rendita da quando suo padre e suo madre avevano deciso di spiaccicarsi in mezzo a un incrocio, facendo tutto da soli, ma...

 

Mancava tutto il resto. Mancava la vita. E soprattutto gli mancava se stesso, quello che c’era dietro quel mostro che lo teneva prigioniero dietro chili e chili di ciccia ammassata – pensò infilandosi le ciabatte marroni.

 

Trascinandosi, andò a letto. L’ultimo pensiero fu per Silvia, l’elfo. La vide venirgli incontro, tuffarsi fra le lenzuola e sommergerlo di baci. La vide infilarsi sotto le coperte e appoggiarsi sul suo corpo come una vela alla barca e vide...

 

Si addormentò abbracciato al cuscino, dimenticando il peso che piegava il letto leggermente a metà.

 

Il gatto lo svegliò. Lo impastò con le unghie sulla pancia voluminosa, fino a quando non scelse di darsi una mossa e alzarsi prima di diventare un patetico colabrodo.

 

Dopo aver fatto colazione, decise di suonare un po’. Cantò un pezzo di Ivan Graziani che gli piaceva molto e fu assalito dalla malinconia. Decise di non andare a scuola. Uscì di casa vestito leggero. Non poteva sopportare altro peso addosso, quel giorno. Girò per il centro senza meta fino ad arrivare davanti all’ingresso del Museo Egizio. Si guardò intorno e gli parve una buona idea: le mummie non avrebbero avuto niente da ridire sulla sua obesità. Semmai sarebbero state invidiose. La cosa lo fece sorridere e gli piacque. Entrò sentendosi in arrivo un leggero mal di testa.

 

Che due palle! - si disse afferrando la solita pastiglia dallo zaino – Ci risiamo, mal di testa del cavolo! -

 

Andò dietro ad una scolaresca seguendo le spiegazioni della guida. Alcuni ragazzini lo additarono e lo sbeffeggiarono. Lui finse di non vedere e sentire nulla. Guardando le mummie, sentì solo aumentare quel senso antico di malinconia: era incredibile immaginare che sorridessero dietro lo scheletro dei pochi denti rimasti, sotto alle orbite vuote. Ma lui lo fece.

 

La testa gli diede un altro colpo secco. Stavolta lo sentì fino all’orecchio. Il dolore aumentò e gli mancò il respiro: qualcuno gli stava saltando in testa e sicuramente aveva il peso doppio del suo. Cominciò a vedere doppio. Si appoggiò a una sedia barcollando come una torre colpita alle fondamenta. Una guida lo notò, gli si avvicinò e gli chiese: «Tutto bene?».

 

Giannino non rispose. Il ronzio era troppo forte e tutto girava come sulle giostre da bambino, con la differenza che il suo cavallino s’impennava. Alla fine un altro colpo gli rimbombò nel cervello con il rumore di una frana che crollava in una diga facendola tracimare. Qualcosa esplose. Una mano invisibile gli afferrò un fascio di neuroni per scollegarli come fili di luce dell’albero di Natale. Non vide più nulla. Cadde per terra facendo il chiasso che avrebbe fatto una teca piena di canòpi, urtata da un elefante.

 

Accorsero tutti.

 

«Largo, largo sono un medico» disse un uomo magro e sudato.

 

Gli sentì il polso e scosse la testa: «Chiamate l’ambulanza, questo ragazzo è morto» disse pulendosi gli occhiali nel fazzoletto.

La gente guardò la scena senza fiatare, restando immobile: tante mummie, tutte nel medesimo posto.

 

«Allontanatevi tutti per favore» disse una guardia del museo facendosi largo a spintoni.

 

«Spostiamolo almeno!» disse un signore che teneva in mano un opuscolo.

 

Gli altri lo guardarono straniti.

 

«Lo fa lei?» lo sbeffeggiò la guida.

 

Si misero in cinque. Il povero Giannino non si mosse che di qualche centimetro.

 

«Aspettiamo i medici del 118» disse il guardiano. Lo coprirono con un tendaggio di fortuna, recuperato da una teca. Il guardiano storse il muso e il medico lo guardò con disprezzo: «E va bene, speriamo che arrivino veloci., quello non è un lenzuolo, Cristo santo» disse visibilmente contrariato.

 

Dopo di che, si allontanarono di qualche passo, lasciando il povero Giannino per terra, da solo.

 

 

Nessuno la vide: una piccola creatura verde smeraldo, zampettò uscita da nulla, verso il corpo del ragazzo. Velocissima si infilò sotto il tendaggio. Scalò a fatica - riparata dagli occhi di tutti - quella montagna di carne umana. Arrivò di fronte alle labbra ormai viola di Giannino. La bocca era semiaperta e l’esserino la tastò delicatamente con le antenne. Si pulì le zampe sfregandole fra loro e infilò la piccola testa nera e lucida all’interno delle labbra. Spostò la lingua spingendo con delicatezza e scomparì, infilandosi dentro. Il corpo di Gianni sussultò.

 

Quando arrivarono i paramedici del 118 si misero le mani nei capelli nell’intravvedere la stazza del morto al di sotto del tendaggio color porpora. Lo scoprirono con curiosità, come se al di sotto vi fosse stata una tavola imbandita anziché un cadavere da trasportare.

 

Gianni aveva gli occhi aperti e li osservava. L’ aneurisma che da sempre aveva vissuto nella sua testa, condividendo con lui gioie e dolori si era dissolto com’era venuto.

 

Si guardarono fra di loro come durante una partita a Monopoli: in gioco, il Parco della Vittoria.

 

Poi fu solo chiasso.

 

«Era morto, era morto!» strillò il medico, balzando come un folletto di fronte a tutti.

 

«Beh, non sembra» disse il medico del 118. «Si sarà trattato di un malore» aggiunse, cercando di calmare l’uomo.

 

«Sono medico da 40 anni, so distinguere un malore da un morto» urlò l’altro girando la schiena e andandosene, fuori di sé dalla rabbia.

 

Tutti ritornarono a posare gli occhi su Gianni.

 

«Sto bene» disse un po’ stralunato. «Mi sento solo un po’ strano» disse allungano la mano verso chiunque lo potesse aiutare ad alzarsi.

 

In quattro cercarono di tirarlo su e a lui scappò un piccolo rumore che sua madre un tempo avrebbe riassunto come: «Non ti preoccupare è tutta salute».

 

Dopo essersi sincerati che fosse tutto a posto e che: – No, non voglio venire in ospedale, si grazie, sto bene – Gianni uscì dal Museo. Una mummia aveva più colorito di lui ma – diavolo! - si sentiva a posto. Gli faceva solo un po’ male lo stomaco - ma forse era la fame -. si disse. Entrò in un bar, fece colazione con tre bomboloni e una cioccolata calda. Leccandosi gli angoli della bocca con la lingua, cercò di rammentare cosa fosse successo.

 

Non ricordava nulla. - Era morto? - Quello che sapeva era quello che gli avevano detto coloro che avevano assistito alla scena. Ma nonostante lo sforzo, tutto gli scorreva addosso come se non si trattasse di lui. Non capiva neanche perché la cosa non lo preoccupasse affatto. Qualcosa da dentro, gli diceva che era tutto a posto. E “quella cosa” aveva un riflesso verde, come i suoi occhi. E tanto gli bastava.

 

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Sei mesi dopo si comprò dei jeans quasi attillati. Aveva perso la bellezza di 80 chili e si sentiva in ottima forma. Era strano passare fra la gente senza che qualcuno lo apostrofasse “ciccione” o “palla di lardo” Incredibilmente si era abituato anche a quello pur cogliendone decisamente, il sapore diverso. Era goduria allo stato puro. Guardandosi allo specchio aveva cominciato a riconoscersi. I capelli biondi, il viso da cherubino, tutto aveva il colore e l’essenza di quello che si era sempre sentito: un bel ragazzo dai tratti fini e scolpiti. Ogni tanto si sentiva qualcosa nella pancia ma nulla che un ragazzo della sua età non potesse confondere con una certa tensione vibrante al basso ventre. E di quella ne aveva.

 

 

Si riscrisse allo stesso corso di chitarra dopo mesi che se ne era allontanato. Non aveva avuto ragioni particolari, semplicemente mentre dimagriva velocemente giorno dopo giorno, non ne sentiva la necessità: passava tutto il tempo a studiare e approfondire la sua nuova passione: gli antichi egizi. Aveva scoperto che oltre al gatto, avevano una vera e propria venerazione verso gli scarabei. E lui li adorava: trasportavano con passione innata quello che lui sentiva di essere stato per anni.

 

Lesse e scoprì – senza non sentire ogni volta, un tuffo al cuore - che simboleggiavano la resurrezione. E lui non era forse un resuscitato?

 

Sei mesi dopo, i ricordi di quel giorno erano ancora confusi: ma quante volte aveva raccontato ai suoi compagni di classe che la sua morte, non era che un giallo nel giallo. Raccontò loro che qualche giorno dopo la sua “morte” al Museo fu denunciata la scomparsa di uno raro scarabeo, appartenuto forse a Nefertari. E che: - magari ce lo avesse avuto lui! - Che fecero indagini, interrogarono le persone – lui compreso – presenti al momento della sua “dipartita”, ma nulla. Nessuno ne venne a capo. Il “Copris Lunaris” - lo scarabeo sacro in questione - era sparito inghiottito nel nulla. E la parola “inghiottito”, gli era sempre parsa la più appropriata.

 

 

La sera che si presentò nuovamente nell’aula del corso di chitarra, nessuno lo riconobbe. Neanche il maestro. Dovette fare una bella fatica per convincerli che si, era sempre lui, Gianni. Silvia, seduta sulla stessa sedia di sempre, sbarrò gli occhi quando lui le si ripresentò con la sua nuova forma angelica. Allungandole una mano per stringerla alla sua vide per la prima volta che finalmente, ne riconosceva l’esistenza. Mentre le sue dita scorrevano sulle corde ancora più veloci di un tempo, si accorse che non faceva che guardarlo estasiata. Che strana sensazione: l’elfo non aveva occhi che per lui.

 

Dopo un mese - all’uscita dall’aula del corso - si accordarono per andare a bere qualcosa. Giannino era al settimo cielo, Silvia invece li aveva saltati tutti per arrivare direttamente al punto. Gianni ne rimase subito un po’ stranito.

 

- Era davvero la ragazza che credeva? - cominciava a dubitarne.

 

Sbatteva gli occhi, lo toccava di continuo. Inventava mosse provocanti per fargli intravvedere le gambe - anche se non era necessario - visto che si stavano semplicemente gustando una birra con delle patatine.

 

Gianni cominciò a riflettere davvero quando lei si tese - abbassandosi verso di lui, improvvisamente - per mostrargli la scollatura come se fosse per caso. I segni a “V” dell’inizio del seno, invitanti verso di lui attraverso la camicetta.

 

- Se fossi stato ancora una balena, lo avrebbe fatto? - rifletté amaramente ben conscio della risposta. Non ci pensava da tempo ma quella sera, mentre lei sporgeva le labbra come se avesse avuto dinnanzi l’unica sorgente da cui avrebbe voluto bere, si svegliò come da un lungo sonno.

 

Gli venne improvvisamente voglia di mandarla a quel paese. Le patatine gli ritornarono su e cominciò a deglutire come per lottare contro un rigurgito senza controllo. Dalla pancia allo stomaco, qualcosa risaliva facendosi largo fra mille emozioni contrastanti. Ma una vinse.

 

L’aveva tanto amata! E ora scopriva che era solo una delle tante stronze che l’avevano sempre sfiorato - ignorandolo - mentre ogni suo angolo toccava ogni cosa per cercare di farne parte...

 

Niente di speciale. Solo una delle tante.

 

- Sei brutta. Brutta dentro! - le disse senza proferire parola.

 

Quel qualcosa che si sentiva dentro, dallo stomaco salì verso la gola. Si sentiva un groppo ma non era la tensione: una liberazione piuttosto.

 

All’improvviso afferrò la donna per il collo con una mano – non era quello che desiderava? - e trascinò il viso di Silvia davanti al suo, schiudendo la bocca. Lei lo guardò rapita e aprì le labbra a sua volta, voluttuosa.

 

Appoggiò le sue labbra su quelle schiuse della ragazza, stringendo i pugni. Sentì la sua lingua e percepì l’odore della birra. Lo scarabeo fu velocissimo: uscì dalla bocca di Gianni e s’infilò fra i denti della ragazza per poi precipitarle in fondo alla gola. Lei sgranò gli occhi, cercò di tossire ma era troppo tardi. Silvia cercò di mandar giù saliva. Lui la osservò mentre le si velavano gli occhi e un riflesso verde le uscì dagli occhi, prima di chiuderli definitivamente.

 

La testa le cadde sul tavolo con un tonfo da chitarra sbattuta per rabbia.

 

«Troppa birra» disse al cameriere accorso per sapere se andasse tutto bene.

 

«Non regge l’alcol» aggiunse mentre l’altro sorrideva strizzandogli l’occhio.

 

«Fiuuuuu che bacio» disse fischiando il cameriere, facendo un gesto con la mano: «Vi stavo portando l’estintore».

 

Gianni rise.

 

«Non occorre, le passerà» disse alzandosi dal tavolo mentre l’altro si allontanava.

 

Mentre Silvia pareva dormire Gianni guardandosi attorno, allungò una mano tesa appoggiandola al tavolo. Le labbra della ragazza si schiusero e lo scarabeo riapparve.

 

Hai mangiato abbastanza vero, vecchio mio? - chiese alla bestiola – in effetti, lì dentro c’era pane abbastanza per i tuoi denti – disse riferendosi all’unico cibo possibile per quelle creature.

 

Lo scarabeo soddisfatto, tese le antenne e zampettò verso le sue dita. Si arrampicò veloce risalendo il braccio fin verso il suo viso per poi scomparire rapido, all’interno della sua bocca.

 

Gianni uscì dal locale pensando a come fosse davvero incredibile la vita: «Quello che fa rivivere qualcuno, può invece uccidere qualcun altro» disse rivolto a sé stesso a voce contenta.

 

Mimò felice nell’aria il giro di DO con una mano, piegandosi sulle ginocchia come un vero chitarrista in un assolo.

DO LAm REm SOL7!

 

Poi si fermò e annusò l’aria.

 

Aveva ragione il maestro, pensò: “Se sono bravo, mi porterà ovunque io voglia”.

 

Maria Rosa Arena

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Articolo pubblicato il 08/12/2019