Riflessioni su quattro cantate di Alessandro Scarlatti. Parte III°

Concludiamo con questo terzo articolo l’interessante disamina che il soprano Maria Caruso ha compiuto sulle quattro cantate di Alessandro Scarlatti che ha registrato per la Elegia Classics.

Ripasso subito la parola all’amica Maria Caruso, che in questi tre articoli ha consentito a molti di scoprire lati nascosti e di incomparabile bellezza delle quattro cantate di Alessandro Scarlatti che ha registrato nel disco Correa nel seno amato & Other Cantatas, pubblicato dalla Elegia Classics.

 

“Appena chiudo gli occhi”, l’inganno delle palpebre pesanti

In questa panoramica di testi, Appena chiudo gli occhi si inserisce come introspezione del desiderio doloroso nel dormiveglia del sonno della ragione.

 

Il sonno è nemico e fabbro d’apparenza che inganna e Scarlatti sfodera tutta la raffinatezza armonica possibile nei due recitativi che introducono arie formali e misurate. Il violino anche in questo caso è brillante protagonista insieme alla voce dell’elaborazione del sonno e dell’inganno, per chiudere con il dialogo diretto nei confronti di un amico sonno, cui si implora di smettere di tormentare con false immagini dell’amato lontano.

 

Stupenda è l’immagine della “bella salma” nel secondo recitativo, in cui il tono diventa concitato e Scarlatti scrive uno dei più arditi passaggi armonici, rendendo perfettamente il senso dell’inganno fluttuante del sonno. Scarlatti ricerca l’instabilità armonica e ci introduce nella dimensione del dormiveglia, in cui non si riesce a distinguere la realtà dall’irreale.

 

I due recitativi e la sinfonia avanti sono il fulcro della cantata, paradossalmente qui più delle arie, pur belle. Qui si esprime il senso del teatro, qui in brevi tratti è chiaramente scolpito un mondo. Tanto da far risultare le arie abbastanza formali al confronto. “Dolce sonno” è in effetti una costruzione formale molto elegante, fluida, e “Amico sonno” un bel gioco di contrappunto e inganni, entrambe sono come scolpite nel carattere.

 

 

“Correa nel seno amato”, tra teatro e filosofia del trascendente

Francesco Maria Zambeccari dice di Scarlatti:

«Alessandro Scarlatti è un grand’uomo, e per essere così buono, riesce cattivo perché le compositioni sue sono difficilissime e cose da stanza, che in teatro non riescono, in primis chi s’intende di contrapunto le stimarà; ma in un’udienza d’un teatro di mille persone, non ve ne sono venti che l’intendono».

 

Cioè, Scarlatti è già nel 1709, quasi vent’anni prima della morte a 65 anni, ormai oltre il gusto delle masse. Le sue composizioni sono “cose da stanza” e difficilissime che posso essere veramente apprezzate da pochi – questo il giudizio dello Zambeccari, che, se da un lato esalta la grandezza di Scarlatti, dall’altro ne dipinge un difficile rapporto con il pubblico, quasi a voler dare le ragioni di un declino delle sue opere nel favore popolare: da un lato, la gestione complicata del teatro che richiede immediatezza, e dall’altro ascoltatori non preparati a intendere un linguaggio musicale simile.

 

Eppure, le quattro cantate selezionate, e in particolare Correa nel seno amato, sono quattro gesti teatrali, quattro slanci diversi nella stessa visione d’insieme della drammaturgia, come fossero quattro diverse parole dello stesso testo.

Correa nel seno amato è una lunga e raffinatissima narrazione, uno dei cui pregi superiori è un’apparente semplicità di una scrittura “all’antica”.

 

Di certo, l’intavolatura per cembalo, i recitativi complessi e articolati, il contrappunto presente nei fugati, la grandiosa chiusura del recitativo accompagnato grave (capolavoro nel capolavoro) e l’apparente lineare semplicità delle arie sono chiari segni di uno sguardo al contrappunto molto lucido. È come se Scarlatti volesse indicare nelle arie i quattro diversi elementi della Natura, i quattro cardini espressivi in cui svolgere il tema della trasformazione dell’anima nel dolore dell’abbandono.

 

Così il malinconico, il sanguigno, il collerico e il flemmatico di Ippocrate svolgono una narrativa di cui Scarlatti è alchimista – i recitativi sono gli stati di discioglimento e consolidamento dei sensi e dei sentimenti (“Solve et coagula”) e le arie le ampolle poste sul fuoco a sobbollire. La fase ultima della “Rubescenza” è proprio in quel recitativo accompagnato grave che segue la morte di Daliso – nelle parole “indi lo pianse Amore”, nella figura del pianto di un Amore già descritto come spietato e come causa stessa della morte.

 

“Tergea tutto pietà spietato amore” – in questo breve passaggio in ternario che precede l’aria “Ombre opache” Scarlatti è padrone assoluto di una nuova invenzione: lo stile di una Scuola Napoletana nascente. Dal suo sguardo al contrappunto antico nasce un linguaggio intriso di quella lingua e quella teatralità che è Napoli stessa, e nasce musica che ha bisogno del respiro e delle inflessioni indolenti della lingua.

 

Il canto qui è diligentemente legato alla disciplina – ciò che Scarlatti scrive in questa cantata non si presta a “fronzoli”, ed ogni altra cosa diversa da ciò che è scritto risulterebbe “fronzolo”. L’ornamento qui è la materia stessa del testo con i suoi diversi livelli, è il saper rendere, con la voce, le emozioni delle immagini dipinte del cielo della notte stellata, i mutamenti nell’animo del narratore, il dramma crudo di Daliso, e una Curilla che non c’è – sfugge. Gli sguardi degli dei sono presenti e vividi, ogni cosa è animata. Entrare in questa cantata è esplorare un mondo intatto che ci giunge da tempi remoti e sentire che l’anima di questo teatro è qualcosa che un geniale Scarlatti ha rapito ad un Empireo preternaturale.

 

Quasi come si osserva un presepe del Settecento Napoletano, con le statuine e il paesaggio aggraziato e complesso, così si percepisce la cantata. La sua tridimensionalità la rende cosa animata di sua vita propria.

Nel difficile sforzo di interpretare musicalmente questa pietra miliare della produzione di Scarlatti, abbiamo immediatamente trovato una sintonia tra di noi basata su un rispetto del testo, nostra profonda intenzione. Poter poi dire di esserci riusciti non è nostro privilegio o compito.

 

Ma se ci si deve interrogare sul perché incidere un repertorio ampiamente già inciso allora alcuni pensieri vengono allo scoperto, e non sono forse le considerazioni che ci si aspetterebbe. Un pensiero è che la cantata ci ha catturati totalmente, generando il desiderio e ‘esigenza di interpretare questo testo perché musicalmente ci rende capaci di esprimere ciò a cui aspiriamo essere come musicisti. Altro pensiero è che l’essere “madrelingua” della voce può dare un’altra prospettiva e aggiungere chiaroscuro al dramma, non essendoci qui una vuota ricerca di un suono “grazioso” a tutti i costi ma che possa a volte risultare (soprattutto in qualche incisione di cantanti anglofoni o di lingua tedesca) alquanto lontana dalla genuina pronuncia e accento.

 

La rinuncia a qualsiasi velleità personale da parte degli interpreti per lasciare emergere questa musica è l’atto di spogliazione più bello e profondo che si possa fare nei confronti di uno Scarlatti geniale, a sua volta chiaramente ispirato da archetipi misteriosi, per cui questa cantata lascia perplessi sul dubbio di quanto la musica possa essere realmente un dialogo tra dimensione divina (più viva in quanto più vicina ad un naturale paganesimo) e umana.

 

In ultimo, penso sia giusto che molti, il più possibile, si cimentino in queste cantate, e facciano col canto rinascere questa forma d’arte che è narrazione degli stati d’animo, narrazione dei simboli di una scienza sacra in cui la narrazione dell’amore, della tragedia, della morte, sono l’ossatura di un culto che serve, tra le altre cose, a spiegare agli uomini come vivere e morire al cospetto dell’eternità.

 

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Articolo pubblicato il 31/03/2020