Vite al ribasso

Tra appalti al ribasso e scarsa formazione, la sfida per il lavoro del futuro

La notizia che oramai non fa quasi più notizia è quella delle gare al ribasso in base a cui, sebbene le amministrazioni (che siano comunale o regionali) facciano dei bandi ineccepibili dal punto di vista tecnico, chi vince riesce ad ottenere l’appalto ma a patto di fare dumping così al ribasso che i propri dipendenti sono costretti a lavorare meno ore e quindi guadagnando salari più bassi.

E’ quello che è accaduto per gli addetti della Reggia di Venaria, spesso in sciopero per gli stipendi bassi nonostante gli introiti derivanti da circa un milione di visitatori all’anno, e che sta avvenendo per gli appalti delle pulizie per gli ospedali Molinette, Martini, Oftalmico, e le strutture di Cirié e Cuorgné.

Chi lavora in queste strutture prende circa mille e cento euro al mese per quaranta ore, cifra che rischia di scendere bruscamente se i dipendenti passeranno a venticinque ore settimanali.

Se alle problematiche legate alle gare al ribasso uniamo quelle del job act a tutele crescenti, all’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti, ai voucher utilizzati nelle maniere più indiscriminate, ci rendiamo conto di come in Italia anche chi ha un impiego rischia di far fatica a tirare avanti a causa del fatto che il lavoro “povero” è molto diffuso.

Nel mondo si sta diffondendo, come prevedibile, l’utilizzo di robot che sostituiscono l’uomo nelle attività più ripetitive, e questo da un lato fa perdere posti di lavoro ma dall’altro, come ogni rivoluzione tecnologica (si pensi all’arrivo dell’energia elettrica e dei frigoriferi che fecero perdere il lavoro a chi accendeva i lumi dei lampioni a gas e a chi portava le ghiacciaie, ma ha dato lavoro nelle fabbriche di elettrodomestici), consente di crearne di nuovi, a patto che i nuovi occupati abbiano un profilo professionale alto e qualificato.

In Italia, chi ha una laurea rischia o di non trovare un lavoro adeguatamente remunerato o di doversi trasferire all’estero per raggiungere i propri obiettivi, facendo tra l’altro perdere al sistema formativo italiano parecchi soldi, dal momento che quell’investimento culturale e formativo fatto a un giovane va a produrre valore aggiunto in altri Paesi.

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un’intervista fatta su Il Giornale a Flavio Briatore il quale diceva che “il problema è sempre uno: che i ragazzi in Italia vogliono assolutamente fare l’università, assolutamente laurearsi, e vogliono assolutamente essere disoccupati. Questo è quello che vogliono essere, dei disoccupati con la laurea, invece di essere occupati facendo lavori manuali […] dico che se uno inizia a fare l’idraulico a 18 anni, magari dopo 10 può avere 40 negozi. Può diventare ricco”.

In dieci anni, si è perso il 20% di iscrizioni all’università e, sebbene non tutti i rinunciatari riusciranno ad aprirsi 40 negozi come sostiene Briatore, è evidente che questo rischia di impoverire quella formazione di alto livello che servirà sempre di più in futuro per poter fare quei lavori intellettuali che andranno inevitabilmente aumentando nei prossimi decenni.

L’idea che chi voglia studiare, per prendere una laurea o un diploma che sia, appaia quasi come un irresponsabile è cosa che fa rabbrividire, ancor di più se detta da un imprenditore che dovrebbe, invece, spingere i ragazzi a formarsi.
Anni fa, Berlusconi, seppur ridendo, disse a una ragazza che per avere un futuro avrebbe fatto bene a sposare un uomo ricco. Ecco chiara, dunque, la formula del successo: non studiate e sposate un ricco, e se proprio volete studiare, non lamentatevi poi di dover emigrare all’estero o di rimanere in Italia senza potervi aprire i 40 negozi … 


Marco Pinzuti

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Articolo pubblicato il 03/04/2017