La strage di Kabul.

Sul popolo hazara gli artigli dell’Isis.

Ormai siamo avvezzi alle tragedie. Sembra quasi che una più una meno non faccia per noi grande differenza !

L’intreccio delle emozioni che proviamo di fronte ai morti in mare, alle stragi di innocenti dilaniati dalle bombe e dai proiettili, in diversi paesi del mondo,  è diventato troppo complesso per tentare di esprimerlo.

Così, dopo quelle che abbiamo sofferto nei giorni scorsi in Europa, la tragedia di Kabul del 23 luglio, con 80 morti e oltre 250 feriti, è vissuta quasi con indifferenza in forza di quella che, per me, sembra addirittura una capitolazione “Dobbiamo imparare a convivere con il terrorismo”!

Sebbene lontano da noi (ma esiste ancora un luogo lontano da noi ?) il dramma del popolo hazara, che a Kabul ha sofferto per mano dell’Isis un’altra criminale aggressione ai suoi uomini, alle sue donne e ai suoi bambini, massacrati soltanto perché sciiti, merita almeno una riflessione in più.

Sul Corriere della sera di domenica 24 luglio, la giornalista Marta Serafini commentando con amarezza la tragedia secolare del popolo hazara, ha fatto riferimento ad un episodio tratto dal romanzo di Khaled Hosseini  “Il cacciatore di aquiloni” (Edizioni PIEMME, prima edizione 2004), in cui il piccolo protagonista, Amir, della etnia pashtun come suo padre Baba, apprende per la prima volta la verità sui servi sciiti che svolgono le attività domestiche nella casa del padre, Ali e il figlioletto Hassan, grande amico di Amir.

Mi è sembrato giusto, in omaggio alle vittime di Kabul, riportare a mia volta l’intero brano, nel quale la sensibilità dell’autore, americano di nascita afgana,  lascia una traccia indelebile delle violenze subite dalla popolazione hazara.

“Ali aveva i tratti mongolici caratteristici degli hazara. Per anni tutto ciò che avevo saputo di loro era che discendevano dai mongoli e che assomigliavano ai cinesi.

I libri di testo quasi non ne parlavano. Poi, un giorno, nello studio di Baba, trovai un vecchio libro di storia di mia madre, scritto da un iraniano.

Quella sera, a letto, lo lessi e fui sorpreso di trovare un intero capitolo sugli hazara. Un intero capitolo dedicato alla popolazione di Hassan!

Scoprii che la mia gente, i pashtun, li aveva perseguitati e oppressi. Da secoli, periodicamente, gli hazara cercavano di ribellarsi, ma i pashtun “li reprimevano con inaudita violenza”.

Il libro diceva che la mia gente li aveva uccisi, torturati, aveva bruciato le loro case e venduto le loro donne.

E una delle ragioni era che loro erano sciiti e noi sunniti. Il libro diceva cose che nessuno mi aveva mai detto. Ma anche cose che io sapevo benissimo, per esempio che gli hazara erano chiamati nasipiatti, mangiaratti, asini da soma.

La settimana seguente mostrai al mio maestro il libro.

Scorse in fretta un paio di pagine e me lo restituì con un sorrisetto di sufficienza. «Se c’è una cosa che gli sciiti sanno fare bene è passare per martiri.» E quando pronunciò la parola “sciiti” fece una smorfia, come se si trattasse di una malattia infettiva”.

La smorfia di disgusto del precettore di Amir si è trasformata anni dopo nella violenza criminale dell’Isis, ansiosa di sostituirsi ai talebani per dimostrare di essere superiori a quelli per bestialità e idiozia.


Ma uno dei modi per non “convivere con il terrorismo” è proprio quello di combattere, anche con la lucidità della ragione e con la memoria, contro la tendenza di chi spera ancora che la sopportazione e il buon senso siano sufficienti per eliminare la barbarie e ritornare a una civiltà accettabile.

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Articolo pubblicato il 25/07/2016