Considerazioni sull’Amleto di Shakespeare in quanto opera iniziatica.

(there is nothing either good or bad, but thinking makes it so).

Shakespeare è considerato il più grande scrittore in lingua inglese e il più grande drammaturgo occidentale. A parte i suoi famosi sonetti, la sua opera è essenzialmente teatrale, partorita in un epoca in cui ancora i media, quali la televisione, non esistevano.

Tutta la sua produzione è degna di nota e pare che, dietro la sua leggendaria figura - alcuni dicono addirittura che non sia mai esistito sotto questo nome - in realtà si celi il rinomato Francesco Bacone, che utilizzò lo pseudonimo di Shakespeare per celare la sua vera natura.

I drammi, le tragedie e le commedie di Shakespeare sono ricchi di simbolismo esoterico, e rappresentano sempre la lotta di un eroe per raggiungere la giustizia e la verità in contrasto con moltissime energie ostacolanti.

“Essere o non essere questo è il problema (o il dilemma)”, è una frase universalmente nota, usata da tutti anche se non molti hanno letto per intero il famoso monologo da cui è tratta.

Questo dilemma esistenziale denota la natura intima di una coscienza matura e molto al di sopra della media, ma non ancora completamente realizzata. In effetti, una entità pienamente cosciente di essere, quindi di vivere fondamentalmente, non si pone tali questioni.

Una rosa (per usare un allegoria simbolica), non ha simili problemi, poiché liberamente vive la sua natura espandendo la sua essenza ovunque. Parimenti, un individuo realmente realizzato e centrato nella sua natura ultima e più intima, ha superato ogni questione dubbiosa che sorge nella mente inferiore, e come tale vive l’attimo presente senza porsi nessuna sorta di problemi.

Lo stato di coscienza di Amleto nella fase in cui pronuncia il suo famosissimo dilemma, è paragonabile a quella di San Giovanni Battista, il precursore del Cristo, che di fronte al messia, ovvero al vero figlio divino, afferma che “lui deve crescere ed io diminuire”, alludendo con ciò alla sua totale scomparsa imminente dovuta alla sua decapitazione.

In questo senso rappresenta il massimo che un ego umano può raggiungere in quanto teoria speculativa in ambito filosofico: un dubbio irrisolvibile sbarra la strada al pensiero corrente e come l’affermazione socratica, la mente umana può giungere solo ad affermare “so di non sapere”.

Il vero protagonista della tragedia qui trattata in realtà è Fortebraccio, che rimane per tutto il racconto nel sottofondo della trama, per apparire sulla scena solo alla fine del racconto, quando tutti muoiono, compreso Amleto.

Fortebraccio è di natura regale e ciò indica la figura del microcosmo divino che deve rinascere dopo la morte mistica dell’io, di Amleto cioè. Quando si attua la tragedia finale -ma apparente- che colpisce la corte in cui vive Amleto, quando cioè ogni segno e traccia di egocentrismo viene smantellata, sorge dal profondo il vero protagonista della storia umana, il microcosmo per l’appunto.

Il sacrificio Di Amleto quindi non è vano ma rappresenta la base stessa della rinascita alchemica interiore. Simili accadimenti agli eroi di numerose tradizioni epiche, sono testimoniate in altri racconti dalla stessa valenza esoterica ed iniziatica di Amleto. Basti citare qui il poema antico sumero di Gilgamesh, in cui, dopo imprese sovraumane, anche qui l’eroe solare trova la morte.

Trattasi della famosa morte iniziatica, riconducibile nella sua essenza ai miti antichissimi ed ancestrali del culto di Osiride. Questa morte simbolica dell’io- che a tutti gli effetti deve essere totale, - scientifica ed assoluta - è preceduta sempre da un’altra morte, per così dire, animica, rappresentata nella tragedia di Shakespeare dal suicidio di Ofelia. Non a caso anche nel Faust di Goethe, Margherita, che rappresenta simbolicamente la parte psichica più pura del sapientissimo dottore, muore quasi all’inizio della storia.

Ricordiamo che questa morte simbolica, ma più reale della morte fisica stessa, è da intendersi, non come una rottura del legame con la statura corporale, ma essenzialmente come “uno svuotamento degli atomi che compongono la statura umana, per permettere che lo spirito vi trovi posto, rigenerando tutto il sistema e ricomponendolo in una nuova ed immortale entità”.

Trattasi qui di concetti ermetici. Un antico detto alchemico afferma che “chi muore quando è in vita non muore quando muore”. Mikhail Naimy nel libro di Mirdad afferma: “Vivi per morire o muori per vivere”. Nel vangelo Cristo afferma  che “chi vorrà conservare la sua vita la perderà, chi la perderà per amor mio la conserverà.“

In questo contesto. L’epopea tragica di Amleto rappresenta una versione adattata per i suoi tempi, della grande sfida in cui ogni uomo dovrà confrontarsi prima o poi: la sua morte significa infatti la riconquistata vita eterna per il microcosmo divino prigioniero del basso mondo in cui viviamo.

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Articolo pubblicato il 16/11/2017