Torino - Ligabue alla Promotrice di Belle Arti al Parco del Valentino

Ancora una volta l’occasione per riflettere sulla problematicità di questo artista

Antonio Ligabue (Zurigo 1899-Gualtieri 1965) ritorna a urlare la sua arte di sogno, di visione, di paura, di angoscia nella bella mostra allestita presso la Promotrice di Belle Arti di Torino al Parco del Valentino.

Tony il matto era detto questo straordinario personaggio che non ci siamo mai sentiti di definire naive, poiché nella sua pittura c’è altro, di indefinibile, di spregiudicato, di selvaggio. C’è l’aria libera del mattino che porta voci appena percepibili del grande fiume che scorre con il suo canto di forza e di speranza.

C’è la violenza di una fiera che dilania una gazzella caduta tra denti bianchi  trasformati in lame di morte. C’è la paura della natura che saprà rivoltarsi contro l’uomo falsamente consapevole di conoscerne i segreti, i moti, le potenze insite.

 

Ligabue, raccontato a Torino con una serie di dipinti, disegni e sculture, ci offre ancora una volta l’occasione per riflettere sulla problematicità di questo artista, di cui possono ancora essere proficuamente studiati alcuni aspetti della sua arte e soprattutto del suo inquieto rapporto con l’universo che lo circondava.

 

Antonio Ligabue non fu comunque solo figlio della follia, ma ebbe la consapevolezza, espressa in seguito attraverso il tracciato forte della pittura, del dolore, dell’angoscia che sovrasta sovrana la nostra esistenza e che spesso, proprio i più fragili riescono a portare a galla come un cadavere annegato nel mare magnum dell’incertezza umana.

 

Questo artista, in fondo difficile da capire, perché artefice di una tecnica rozza, elementare nella sua rabbia figurativa, ebbe la padronanza atavica, quasi animale, di “sentire” la natura, fino a percepirne l’urlo antico: suoni e parole negate alla maggioranza, a quelli che si dicono “normali”, ma spesso così brutalmente  incapaci di andare oltre il limite vigliacco dell’apparire quotidiano.

 

C’è un dolore antico nel lavoro di Ligabue, quel dolore trasfigurato nel gianiforme messaggio della metafora, che anche quando invoca una improbabile dimensione scenografica nel vortice di una rappresentazione quasi rituale, sa snodarsi con violenza, con vigore, senza celare le urla che dilaniano la nostra insoddisfatta sete di certezze.

 

Forse la risposta, anche poetica oltre che esistenziale, era adagiata nella possibilità di seguire gli animali, di emularne il gesto, la voce, l’aspetto: e allora anche massacrarsi il setto nasale con una pietra per essere simile alle bestia delle sponde umide, può avere un senso, può essere una chiave.

Può essere una strada, quando la fuga dalla civiltà resta l’unica via per continuare a sperare. Forse per un tempo limitato, brevissimo. Ma degno di essere vissuto.

 

Ligabue è anche questo. Oltre la sua pittura c’è l’esperienza di una vita sofferta e un po’ misteriosa, ricostruita in una pittura così densa da farsi materia viva e gridare.

 

Ligabue, interpretato dai critici, narrato dagli scrittori, dai poeti e dagli sceneggiatori, continua a essere una figura colma di mistero che nessuna parola potrà descrivere come veramente merita, ma soprattutto non c’è un percorso poetico programmatico, c’è soprattutto istintività, forse anche patologia, mistero della psiche che si rispecchia negli incubi in cui gli archetipi e i simboli si rincorrono alla ricerca di una volto per chiamare per nome le paure.

 

La mostra è aperta fino al 26 maggio

Da martedì a domenica, dalle 10.00 alle 20.00

 

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Articolo pubblicato il 18/02/2024