8 gennaio 1873: nasce a Torino Alfonso Ferrero, poeta e scrittore in lingua piemontese

L’opera di Alfonso, vasta e varia, comprende prosa, poesia, teatro e riviste: la rievoca il valoroso discendente Enrico, custode delle memorie della famiglia Ferrero

Ho conosciuto Enrico Ferrero sul finire degli anni ’80 del secolo scorso, come mio allievo presso l’allora Facoltà di Medicina Veterinaria, poi siamo diventati, oltre che colleghi, amici, accomunati anche dall’interesse per la letteratura piemontese: Enrico è infatti discendente dalla famiglia Ferrero, che ha dato vari importanti personaggi alla nostra cultura regionale, e ormai da tempo si occupa valorosamente del recupero delle memorie familiari.

Divisi per anni dalla lontananza geografica e da impegni familiari e professionali, in questi ultimi tempi abbiamo rinnovato il nostro sodalizio culturale. Questo ricordo di Alfonso Ferrero è il primo frutto della nostra collaborazione (m.j.).

 

Alfonso Ferrero nasce a Torino, l’8 gennaio 1873, figlio del notaio Ferrero, attore dilettante in compagnie dialettali, e di Teresa Pasta. Diviene attore assai quotato nel giro delle compagnie dialettali, al tempo molto in voga.

Nel 1890, a soli 17 anni, inizia la sua collaborazione come poeta con il giornale satirico-letterario “L’ Birichin”, pubblicato a Torino, e di cui è direttore dal 1886 al 1896 suo fratello Carlo Bernardino.

Alfonso sposa Maria Gemelli, figlia del noto attore Enrico Gemelli a cui dedicò un sonetto in occasione dei suoi sessant’anni di vita artistica. È padre di Salvatore, anch’egli autore in lingua piemontese, e nonno di Gabri Gemelli, attrice teatrale e cinematografica oltre che apprezzata voce radiofonica di Madama Borel nel programma “Bôndi cerea”, sempre in piemontese.

È poeta prolifico in torinese schietto, tanto che nel 1970 il Centro Studi Piemontesi ha raccolto e ripubblicato le sue poesie nel volume dal titolo “Létere a Mimì e autre poesie”.

I primi decenni del XX secolo lo vedono seguire la vita politica cittadina. Socialista umanitario, secondo gli studiosi Gianrenzo P. Clivio e Dario Pasero, partecipa ai moti e alle aspirazioni delle classi popolari. Temperamento sensibile e violento nelle sue reazioni da intellettuale, da giovane è antimilitarista, cantore dei primi maggi rossi, incitatore di diseredati, come negli episodi legati ai fasci siciliani. Tuttavia non esita ad esaltare la guerra d’Abissinia, l’impresa di Tripoli e infine la guerra per Trieste ne “Ij sonet ed la Stòria”.

Abbandonate le scene, ottiene un impiego alla Biblioteca Civica di Torino fino a quando si ammala. Trascorre i suoi ultimi dieci anni di vita in una casa di cura per malattie mentali.

Muore a Torino, il 9 dicembre 1933, a 60 anni.

L’opera di Alfonso è vasta e varia, e comprende prosa, poesia, teatro e riviste. Esordisce a soli 18 anni, nel 1891, raccogliendo nel volumetto “Caramele ciucioire” (Lecca lecca) una trentina di sonetti, già pubblicati su “L’ Birichin”. Nei suoi versi è già avvertibile il futuro corso della sua arte, in particolare nella seconda parte del volumetto “Dai ricord d’un mort, romans d’amor”.

Clivio e Pasero notano come «la sua prima produzione è varia e confusa e poco controllata: il giovane Ferrero, quasi alla ricerca di sé e del suo mondo, con giovanile baldanza, cosciente del suo valore, si sfoga in canzoni di ribellione e di sprezzo della mediocrità borghese, con un piglio da poeta maudit, che lo distingue nell’ambito della letteratura piemontese del suo tempo e che egli conservò in definitiva per tutta la sua vita».

Tuttavia i vari autori concordano sul fatto che con Alfonso la letteratura in piemontese abbia compiuto un fondamentale salto in avanti qualitativo, fuori dalle maniere e limitazioni della scuola dialettale di allora. Addirittura vi è chi afferma che, considerando le sue pagine migliori, mai un poeta piemontese era riuscito ad esprimersi con tanta ricchezza e tanta forza (G. Clivio, Profilo di storia della letteratura piemontese, Centro Studi Piemontesi, 2002).

Alfonso scrive e pubblica nel 1891, in appendice a “L’Birichin”, “La placa” (novelle), “A l’é mach na sartòira” (racconti), “La pongola, memorie d’una vergine” (racconti scritti insieme a Giovanni Casalegno).

Il primo vero romanzo, con cui iniziò a distinguersi dagli scrittori di feuilleton contemporanei per la padronanza dei mezzi espressivi, fu “Basin vendù”, del 1892.

Nel 1893, a soli vent’anni, pubblica il vivace romanzo “I l’hai massà mia fomna”. Quindi tra il 1913 ed il 1914, il romanzo “Na lagrima dël diao”, apparso in 29 puntate dal n. 51 del 1913 al 32 del 1914, con toni cupi e tetri, tanto da farlo avvicinare a Dostoevskij. I due romanzi hanno una trama pressoché identica e persino i nomi dei protagonisti, Andrea e Genia, sono gli stessi.

Si intravedono le sue ricche possibilità nella poesia e nella prosa in piemontese fin dalle sue prime opere, che si caratterizzano per un’ironia amara, un fondo di sensualità accanto a facili entusiasmi e crudi realismi. Questi sentimenti si ritrovano nelle “Létere a Mimì” pubblicate su “L’ Birichin” in un periodo che copre oltre un decennio, dal 1900 al 1911.

Vanno ricordati “La fisarmonica a son-a” un poemetto d’amore sentimentale e ironico; “Comedia d’la vita” una collana di dieci sonetti uniti non da un filo narrativo ma dal tono del sentimento, ora amaro, ora contemplativo, ma sempre con un fondo di desolazione e pessimismo.

Del 1909 è un libretto poco noto, “‘L Piemont” che, malgrado gli intenti politici, secondo Clivio contiene alcuni dei versi più belli del Ferrero.

È anche prolifico scrittore di drammi e commedie, in italiano e in piemontese, che porta in scena in prima persona. Scrive per il teatro “Socialista (sene popolar)” prima pubblicata in italiano poi in piemontese, “L’ùltima viliacherìa”, “Le bataje dl’ànima”, “La regin-a d’un re” che racconta la storia della marchesa di Spigno e di Vittorio Amedeo II, “Le doe violensse” e “Ij mort ch’a vivo”.

De “Le doe violensse” la prima rappresentazione è avvenuta il 21 novembre 1910 al teatro Rossini di Torino ad opera della compagnia teatrale Cuniberti.

È anche autore nel 1913, insieme a Oreste Mentasti, della commedia satirica musicale “Dal paradis d’j’oche”. Autore poliedrico, traduce due poesie di Victor Hugo, “El babi” (il rospo) e “L’aso” (l’asino), e riscrive nel 1912 in versi martelliani piemontesi “Il cantico dei cantici” di Felice Cavallotti.

Nel 1913, quasi presagendo la sua fine, scrive la poesia “Ij mòrt ch’a vivo” in cui esprime la paura della malattia di mente: “Signor s’it ëm castighe ‘dna mancansa, /nen mat, nen mat, nen mat, për carità!” (Signore, se mi castighi per una mancanza, / non matto, non matto, non matto, per carità).

 

Il testo di questa commemorazione di Alfonso Ferrero è tratto in parte dalla pagina di Wikipedia, scritta da Enrico Ferrero, alla quale si rimanda per approfondimenti.

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Articolo pubblicato il 08/01/2019