Primavera

La favola bella di una stagione che, nei secoli, ha ispirato poeti, pittori e musicisti

Primavera dintorno brilla nell’aria e per li campi esulta, sì ch’a mirarla intenerisce il core”: così l’esimio Giacomo Leopardi, immedesimatosi nel sembiante di un passero solitario, saluta melanconicamente – lui, ancora “indugio in altro tempo” – lo spandersi della ridente gaiezza primaverile.

Da sempre associata al germogliare di nuova vita e, con essa, di infiniti e sempre freschi pensieri, sogni e novelli intendimenti, anche per il poeta di Recanati la Primavera rappresenta “dell’anno e di tua vita il più bel fiore”.

Un periodo felice e ameno, in cui certo “sollazzo e riso” sono “della novella età dolce famiglia”…

Ma anche una favola bella, in cui tutta la vita è in noi fresca e aulente, nonché capace di regalare ogni giorno parole più nuove e preziose.

Il suo principiare, in “questo giorno ch’omai [...] festeggiar si costuma al nostro borgo”, ci ha suggerito alcune altre riflessioni, trasversali fra la Scienza e le diverse discipline artistiche.

Giustappunto per quanto concerne l’aspetto squisitamente astronomico, l’incipit della Primavera corrisponde all’omonimo equinozio.

In tale contesto (nonché nello speculare equinozio d’autunno), i raggi luminosi provenienti dal Sole incidono perpendicolarmente all’asse di rotazione terrestre, determinando un’equanime durata delle ore d’insolazione e di buio. Questa particolare configurazione è figlia del fatto che il predetto asse sia inclinato di circa 23° rispetto al piano dell’eclittica (ovvero l’orbita che la Terra percorre annualmente nel suo moto di rivoluzione attorno al Sole): motivo per cui, in generale, i raggi solari impattano al suolo con angolazioni variabili nel corso del tempo.

E proprio la luce, in grado di dettagliare plasticamente i contorni delle figure, vivifica e scuote la mirabile e celeberrima tavola dedicata da Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi, meglio noto come Sandro Botticelli, al sontuoso florilegio del locus amoenus pittorico per antonomasia…

Il titolo, giustappunto La Primavera, viene tuttavia attribuito all’opera dal Vasari, il quale la etichetta come “Venere che le Grazie fioriscono, dinotando Primavera”.

L’esegesi è ancora dibattuta. Taluni vi scorgono persino una sorta di celebrazione, in chiave mitologica, delle nozze fra il committente, Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici – cugino del Magnifico – e la bellissima Semiramide Appiani.

Nondimeno, la lettura attualmente più invalsa colloca Venere, dea dell’Amore e della Beltà, al centro della scena, in atteggiamento benevolo e quasi compito. Sopra la chioma ciprigna, il figlioletto Cupido scocca con guardo bendato i suoi dardi amorosi, facendo sbocciare nei cuori delle sue vittime la profumata gemma del sentimento. All’estremità destra del dipinto la ninfa Clori viene ghermita dall’impetuoso Zefiro, emblema del tiepido e fecondo vento di Sud-Ovest, a proposito del quale già il Petrarca, in un suo sonetto, scrive “Zefiro torna e ’l bel tempo rimena e i fiori e l’erbe, sua dolce famiglia, […] e primavera candida e vermiglia”. Scossa da Zefiro, anche Clori germoglia (come testimoniato dal filo di fiori che le sgorga dalla bocca), tramutandosi dunque in Flora o, appunto, nella amena e inghirlandata figura della Primavera, intenta a spargere fiori intorno a sé.

Nella parte sinistra dell’opera si scorgono invece le tre Grazie, leggiadre e affascinanti ancelle di Venere, impegnate in un’armoniosa e ritmica danza silvestre. Chiude la scena Mercurio, il messaggero degli dei dai veloci calzari alati, che vibra nell’aere il caduceo per allontanare la pioggia e preservare sugli astanti un’eterna e turgida primavera.

A far da sfondo alla narrazione, si stagliano opimi e primaticci aranci, mentre il tappeto erboso è variamente trapunto da margherite, viole, ranuncoli, gelsomini e fiordalisi, accompagnati da un’infinità di altri fiori, chiaro rimando al rigoglioso giardino delle Esperidi mutuato dalla mitologia greca. 

Codesta visione bucolica e gaudente pennella una Primavera vivida e vitale, stilisticamente rapportabile a quella “sottile visitatrice”, che “giochi ogni giorno con la luce dell’universo” e “giungi nel fiore e nell’acqua”, cantata da Pablo Neruda in una sua celebre lirica. L’autore, il cui nome “tutti allontanano”, quasi fosse un gelido rantolo d’inverno, si augura giustappunto di poter “fare con te ciò che la Primavera fa con i ciliegi”.

Ritornando al capolavoro di Botticelli, dello stesso è possibile fornire un’interpretazione ulteriore, più sacrale, nonché reminiscente del divino poema dantesco (di cui, non a caso, il pittore fiorentino risulta profondo e accorto conoscitore).

Stante certune declinazioni filologiche, il personaggio centrale non rappresenterebbe dunque Venere bensì Beatrice, ricongiuntasi a Dante all’interno della “divina foresta spessa e viva” dell’Eden, ove “qui fu innocente l’umana radice; qui primavera sempre e ogne frutto”.

A sostegno di quanto poc’anzi asserito deporrebbero l’atteggiamento della donna (marcatamente più pudico rispetto alla languida e molle posa con cui lo stesso Botticelli raffigura Venere nel dipinto dedicato alla sua nascita), nonché l’aureola di capelli dorati che pare coronarle il capo.

In quest’ottica, al ratto di Clori si sostituisce il traviamento di Eva, sedotta e ammaliata dal cupo e bigio Lucifero che, con successo, la istiga a cibarsi del frutto proibito dell’Eden. La prova del peccato commesso consisterebbe proprio nel lacero ramoscello di fiori vomitato dalla donna, emblema della rigogliosa gaiezza perduta e di quel “sommo Ben che […] per sua difalta qui dimorò poco; per sua difalta in pianto e in affanno cambiò onesto riso e dolce gioco”.

Flora identificherebbe invece l’enigmatica Matelda, ovvero la “bella donna che a’ raggi d’amore ti scaldi”, incontrata da Dante lungo le fiorite sponde del fiume Lete mentre “soletta si gia […] cantando e scegliendo fior da fiore ond’era pinta tutta la sua via”. Esattamente come nel caso della Primavera botticelliana, circondata da ogni sorta di germogli.


Così Matelda, a cui nel poema Dante chiede poi di spiegare l’origine del vento e dei fiumi edenici, precorre – anche stilisticamente – la venuta di Beatrice, che egli di lì a poco vedrà “dentro una nuvola di fiori che da le mani angeliche saliva”.

Peraltro, anche la narrazione dantesca non difetta di richiami mitologici. Infatti, la bellezza gentile di Matelda rammenta al poeta la figura di Proserpina, figlia di Giove e di Cerere, rapita da Plutone giustappunto mentre era intenta a intrecciare ghirlande di fiori (“Tu mi fai rimembrar dove e qual era Proserpina nel tempo che perdette la madre lei, ed ella primavera”). Presente anche un riferimento esplicito alla dea Venere, trafitta per errore dal dardo del figlio Cupido e per questo invaghitasi di Adone: Dante dubita che sotto le sue ciglia possa rifulgere “tanto lume” d’amore quanto presente negli occhi di Matelda.

In ultimo, ancorché non sia accostabile ad alcuno dei primaverili personaggi botticelliani, merita fornire un breve cenno alla figura di Lia, “giovane e bella donna” che Dante conosce in sogno, poco prima dell’incontro con Matelda. Anch’ella si rende latrice di pensieri idillici: va infatti operosa “per una landa cogliendo fiori; e cantando dicea: «[…] vo movendo intorno le belle mani a farmi una ghirlanda»”.

Tornando all’esegesi in chiave letteraria del dipinto, le tre fanciulle danzanti non  incarnerebbero le Grazie, bensì la triade delle virtù teologali (Fede, Speranza e Carità) in cui il poeta s’imbatte poco prima di riveder Beatrice.

Lo stesso Dante sarebbe infine rappresentato nel dipinto, col sembiante dell’unico personaggio maschile ivi riprodotto. Nondimeno i suoi attributi non si limiterebbero a quelli di Mercurio, messaggero degli dei e, per esteso, anche della salvifica novella contenuta nella Commedia. Botticelli, infatti, vi avrebbe altresì infuso la fierezza di Marte, protettore di Firenze, nonché la paziente caparbietà di Adamo, perdonato da Dio e finalmente riammesso a godere delle “tante primizie” presenti nel Paradiso terrestre.

Ci apprestiamo ora a concludere codesta breve dissertazione, accompagnando i delicati timbri cromatici della pittura di Botticelli e i musicali endecasillabi danteschi con una opportuna colonna sonora…

E naturalmente la scelta non poteva che attestarsi sulla Primavera di Antonio Vivaldi, celeberrimo concerto in Mi maggiore per violino principale, due violini, viola e basso, tratto dalla raccolta Le quattro stagioni.

Esso consta di tre movimenti. Il primo, preclaro Allegro sontuoso e vivace, celebra giustappunto il trionfo di Flora sui rigori invernali della Natura e dei cuori umani. E lo fa, volendo noi una volta di più attingere dal florilegio lirico dantesco, in guisa d’ “un’aura dolce”, “con piena letizia […] cantando”…, anche quando il canto degli “augelletti” viene per un attimo interrotto dal brusco rombo del tuono.

Allora la modulazione in tonalità minore ci richiama nuovamente alla poetica di Neruda, dove “il temporale solleva in turbine foglie oscure e scioglie tutte le barche che iersera s’ancorarono al cielo”…

Quel cielo, stellato, meraviglioso e infinito ove, a differenza del passero solitario di Leopardi, “passo del viver mio la primavera”.

 

 

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 21/03/2018