L'Infinita Meraviglia del Cosmo

Nona tappa. Stephen Hawking: "ne la profonda e chiara sussistenza de l'alto lume" dell'Universo

Col viatico di un’altra suggestiva immagine tratta dal galeotto libro delle Stelle, che “noi leggiavamo un giorno per diletto… e per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura”, tributiamo quest’oggi il dovuto encomio a Stephen Hawking, celeberrimo cosmologo inglese scomparso qualche giorno or sono all’età di 76 anni.

Nonostante la severa infermità di cui il suo corpo fu per decenni prigioniero, intrappolato dietro e dentro una sorta di leopardiana “siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”, Hawking, “sedendo e mirando”, seppe tuttavia disvelare “interminati spazi di là da quella”, formulando alcune fra le teorie maggiormente pionieristiche in campo astrofisico.

Titolare per un trentennio, presso l’Università di Cambridge, della cattedra di Matematica su cui secoli prima sedette anche Isaac Newton, auspice della teoria della Gravitazione, Hawking indirizzò gran parte dei suoi studi proprio alla comprensione degli oggetti celesti caratterizzati da campo gravitazionale più intenso. I buchi neri.

Come già noto agli affezionati Lettori di Civico 20 News, essi individuano lo stadio evolutivo finale delle stelle cosiddette supermassicce, già passate attraverso la fase esplosiva di supernova.

All’uopo, ciascuna galassia del Cosmo ospita mediamente nel suo centro uno o più buchi neri.

Per quanto concerne l’immagine proposta, risultato delle straordinarie performances multibanda (dall’ultravioletto all’ottico, sino alla luce infrarossa) ottenute dal Telescopio Spaziale Hubble, in essa è per l’appunto visibile una nutritissima congerie di galassie, tutte afferenti all’Universo profondo (in gergo tecnico, si parla infatti di Ultra Deep Field).

Ricordando come, in Astrofisica, le distanze spaziali equivalgano altresì ad analoghi tragitti temporali, il fatto di poter qui osservare galassie lontane oltre 13 miliardi di anni luce significa, sbalorditivamente, bearsi dell’immagine di un Universo appena neonato (essendo la sua età stimata in circa 13.7 miliardi di anni).

Un Universo nella culla, ancora avvolto dal caldissimo abbraccio del Big Bang, l’immane esplosione da cui tutto principiò neanche 100 milioni di anni prima.

Nella fattispecie, mutuando gli imperituri versi dell’onnipresente Dante Alighieri, davvero “a l’alta fantasia qui mancò possa”…

Nondimeno, “qual è ‘geometra che tutto s’affige per misurar lo cerchio”, Stephen Hawking seppe sapientemente volgere il “disio e ‘l velle”, indagando l’infinita meraviglia dell’origine del Cosmo con gli strumenti del rigorismo matematico e fisico.

Firmò infatti, insieme al collega Roger Penrose, alcuni importantissimi studi sulle singolarità, regioni spazio-temporali caratterizzate da anomali parametri termici e densitometrici: nel caso del Big Bang, ambedue infiniti, ingenerando vieppiù lo spinoso problema del dover trattare quantitativamente valori per l’appunto incommensurabili.

Hawking dimostrò altresì come dette singolarità rappresentassero una caratteristica diffusa – e non unica o saltuaria – della Relatività generale, applicandosi anche al caso dei buchi neri, talmente densi e dotati di un’attrazione gravitazionale così intensa da intrappolare persino la luce (donde l’epiteto di buchi neri).

Ciò nonostante, egli postulò per questi oggetti l’esistenza di una precipua forma di radiazione liberata verso l’esterno: trattasi della cosiddetta radiazione di Hawking.

Pur non disponendo ancora gli scienziati di conforti sperimentali in proposito, essa si produrrebbe lungo l’orizzonte degli eventi del buco nero, ergo in corrispondenza del suo bordo, a seguito della separazione di una coppia massiva particella-antiparticella (entità fisiche, queste ultime, che si differenziano solo per la carica elettrica).

La particella riuscirebbe ad allontanarsi dalla conturbante stretta del potenziale gravitazionale, mentre l’antiparticella ne verrebbe invece risucchiata.

Una volta all’interno del buco nero, l’annichilazione con una seconda particella omologa lì presente libererebbe a questo punto un segnale luminoso rilevabile, oltre a comportare, a causa delle successive perdite di massa, la progressiva evaporazione del buco nero stesso.

Peraltro, nel 1988 lo scienziato inglese seppe raccogliere e declinare questi e altri studi in un noto saggio divulgativo, Dal Big Bang ai buchi neri (titolo originale, A Brief History of Time ), divenuto senza dubbio la sua opera letteraria più famosa oltre che, mutuando ancora il celeste vernacolo dantesco, “favilla de la gloria” da lasciare “a la futura gente”.

Per i suoi alti – anzi, astronomici – meriti in ambito scientifico (non coronati dall’assegnazione del Nobel a causa della coeva incapacità di produrre conferme oggettive alle teorie poc’anzi esposte), gli si potrebbe legittimamente veder tributato un epitaffio, di nuovo tratto dalla Commedia: “ É mi ricorda ch’io fui più ardito per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi l’aspetto mio col valore infinito”…

Infinito giustappunto come l’abbraccio delle Stelle… e come l’immensità in cui, grazie a Esse, “s’annega il pensier mio”…

Sempre serrando e disserrando l’Infinita Meraviglia del Cosmo…

 

Il viaggio continua!

 

Image Credit: NASA, ESA, H.Teplitz & M.Rafelski (IPAC/Caltech), A.Koekemoer (STScI), R. Windhorst (ASU), Z. Levay (STScI)

 

Stampa solo il testo dell'articolo Stampa l'articolo con le immagini

Articolo pubblicato il 25/03/2018